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SPEAKERS

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SAMUEL ANTICHI 

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Re-animating images. Il documentario animato tra postmoderno e sguardo intermediale

 

Nel presente contributo analizzerò alcuni casi di studio che pongono una riflessione intorno alle modalità di figurazione di eventi traumatici, restituendo immagini che richiamano formalmente l’esperienza passata, sviluppando una conoscenza storica post-traumatica. 

Il trauma cinema, secondo quanto teorizzato da Janet Walker «rappresenta la realtà in maniera obliqua, prendendo ispirazione dal funzionamento dei processi mentali e mescolando tecniche auto-riflessive che rendono chiare la fragilità della struttura storiografica audio-visiva» (Walker, 2005, p.19). La studiosa identifica come fondative della memoria traumatica due istanze: una immaginaria e una fattuale che provvedono ad una costruzione dislocata e fantasmatica della verità degli eventi. Il trauma cinema cerca quindi di elaborare un corrispettivo formale del trauma evidenziando la sua natura temporale, ritardata e latente, difficilmente riconducibile ad uno schema narrativo e un percorso di rimemorazione razionale, attraverso una forma non realistica e antimimetica. Il principio di irrappresentabilità della trauma theory si interseca incontrovertibilmente con l’impossibilità di teorizzazione caratterizzante la condizione postmoderna. 

L’investigazione postmoderna sulle verità storiche era sorta infatti anche intorno ad una riflessione sull’Olocausto e sulla conseguente impossibilità di verbalizzazione e rappresentazione dell’evento traumatico. La trauma theory, in linea con la critica postmoderna, attua una ricodifica del rapporto tra soggettività e storia, facendo emergere le contraddizioni e le problematicità della testimonianza, lasciando il passato a parlare, tra narrazione parziale ed esperienza personale. 

Andando oltre le questioni subordinate ai parametri di fedeltà, verosimiglianza o accuratezza della realtà filmata, il cinema documentario postmoderno è andato incontro ad un rimodellamento delle premesse fondative del documentario, re-visionando e ri-formulando il linguaggio e il concetto stesso di oggettività, abbandonando la linea narrativa classica, rifiutando di insistere sulla natura incontrovertibile e univoca degli eventi trattati in favore di una forma di conoscenza frammentaria. 

Facendo riferimento al dibattito intorno alle forme postmoderne del cinema documentario, sviluppatosi negli anni Novanta e che ha coinvolto studiosi e studiose tra cui Linda Williams Bill Nichols, Paula Rabinowitz, Janet Walker, Hayden White e Robert Rosenstone, nel seguente intervento focalizzerò l’attenzione sulla forma animata che ri-mette ulteriormente in discussione i tradizionali limiti epistemologici dissolvendo completamente il legame indessicale e il rapporto ontologico con la realtà rappresentata. L’utilizzo dell’animazione può provvedere alla ricostruzione e ricreazione di eventi, episodi storici che non sono stati documentati o di cui la documentazione non è più disponibile, andando a costituire un modello alternativo, antimimetico, per accedere al passato e per figurare i contenuti dislocati, frammentari e fantasmatici della memoria traumatica. 

Interrogandosi sulla crisi della narrazione storica, sulla sua mediazione, sui limiti della rappresentazione e sulla frammentarietà del processo storiografico, gli esempi che verranno presi in esame come Valzer con Bashir (2008), La strada dei Samouni (2018), Chris the Swiss (2018) costruiscono uno sguardo testimoniale intermediale che si genera dall’incrocio tra forme di figurazione ibride, un dialogo costante tra reale e immaginario, fiction e non-fiction, filmati d’archivio e disegni animati al fine di esplorare una memoria repressa e per ri-elaborare l’esperienza traumatica.

 

Short-bio 

Dottorando in Musica e Spettacolo all’Università La Sapienza di Roma dopo aver conseguito il Master’s degree all’Università di Stoccolma. Il mio attuale progetto di ricerca si focalizza sulla ri-messa in scena del trauma nel cinema documentario. Il mio tutor è la professoressa Giulia Fanara e il mio co-tutor il professor Andrea Minuz. Ho scritto saggi accademici per le riviste Fata Morgana, Imago, Schermi, Immagine, Piano B, H-ermes, La valla dell’Eden e ho partecipato a convegni nazionali e internazionali.

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RAFFAELE ARIANO 

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Modernismo, postmodernismo, perfezionismo. 

Tre categorie nel pensiero di Stanley Cavell

 

Il mio intervento esplorerà le riflessioni di Stanley Cavell sul modernismo, portando al contempo in luce la concezione del postmodernismo che, come cercherò di sostenere, è in esse implicita. Facendo riferimento principalmente a Must We Mean What We Say (1969) e a The World Viewed: Reflections on the Ontology of Film (1971), ma anche a testi meno ovvi come This New Yet Unapproachable America: Lectures After Emerson After Wittgenstein (1988), ricostruirò i modi in cui il trattamento cavelliano della coppia modernismo/postmodernismo funge da generatore e da punto di snodo per un grappolo di riflessioni trasversali, dalle direttrici tra loro solo parzialmente sovrapponibili, che concernono lo statuto delle arti figurative, della musica atonale, del cinema e dello stesso pensiero filosofico.

Argomenterò che la posizione di Cavell mostra una dialettica complessa e apparentemente oscillante. Una prima tendenza risiede nella denuncia di quelle che potremmo chiamare le contraddizioni del modernismo, seppur svolta nel contesto della perorazione di una sua necessità “epocale”. Si pensi ad esempio agli accenti coi quali, in un saggio come Music Discomposed, Cavell analizza l’opera di Ernst Krenek o gli exploit teorico-sperimentali di riviste come Die Reihe e Perspectives of New Music, pur riconoscendo il dato fondamentale da cui tali esperienze partivano. La sottolineatura di tale dato ritorna in Ending the Waiting Game, in particolar modo nella difesa di Samuel Beckett dalle accuse di Lukacs, o ancora, seppur più obliquamente, nell’idea che il grande problema di pensatori come Emerson, Heidegger e Wittgenstein sia stabilire a quali condizioni sia possibile ereditare, ovvero ridefinire radicalmente ma al contempo proseguire, la filosofia. Tale dato fondamentale può essere compendiato dai concetti cavelliani di minaccia della fraudolenza e fardello del modernismo e riassunto come segue: nella loro fase moderna, prassi e tradizioni superano una soglia oltre la quale diviene impossibile fare affidamento “sinceramente” sulle convenzioni comandate. Tutto va reinventato a partire da una nuova focalizzazione dell’essenza della prassi in questione, eppure – e qui sta per Cavell una differenza tra modernismo e postmodernismo – lo scopo di tali reinvenzioni e rifocalizzazioni sta precisamente nella rivendicazione di una continuità con la prassi nella sua forma tradizionale. Una seconda tendenza può essere identificata in quella che potremmo definire una nostalgia di Cavell per quell’unica arte che non aveva avuto “bisogno” di farsi modernista, ovvero, a suo avviso, il cinema della Hollywood classica. Tale nostalgia attraversa l’intera “ontologia del film” pubblicata nel 1971, incluse valutazioni, come quelle sul passaggio al colore e sulla portata di ciò che la critica successiva avrebbe chiamato American New Wave, che col senno di poi possono apparire esagerate o parziali; ma altrettanto tale tendenza nostalgica si scorge in controluce alla scelta della screwball comedy e del melodrama degli anni Quaranta quali oggetti dei suoi celebri testi di “film and philosophy”: Pursuits of Happiness: The Hollywood Comedy of Remarriage (1981) e Contesting Tears: The Melodrama of the Unknown Woman (1996). Una terza tendenza può essere infine riscontrata nella rivendicazione, di contro al postmodernismo di Richard Rorty o all’opposto e speculare specialismo della filosofia analitica, dell’importanza di un approccio modernista quando si tratti di definire la natura e le finalità della riflessione filosofica nel nostro tempo. Sin dall’introduzione di Must We Mean What We Say, il suo primo libro, Cavell sembra scorgere nel “modernismo” la peculiarità della filosofia post-kantiana. 

Dopo aver identificato tali tendenze di fondo, mi chiederò se possa essere identificato un punto di conciliazione tra queste diverse posizioni e direttrici di ricerca. Facendo in particolar modo riferimento alle Carus Lectures pubblicate sotto il titolo di Conditions Handsome Unhandsome (1990), argomenterò che esso risiede nella concezione cavelliana della filosofia, della critica e delle arti come veicoli di una conversazione sociale umanistica condivisa, ovvero per quella “educazione per gli adulti” che Cavell compendia nella categoria di “perfezionismo emersoniano”. 

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Short-bio

È ricercatore all’Università San Raffaele di Milano, dove insegna Storia della filosofia contemporanea. Addottoratosi in filosofia, ha conseguito una seconda laurea specialistica in Film Aesthetics all’Università di Oxford. È autore di Morte dell’uomo e fine del soggetto. Indagine sulla filosofia di Michel Foucault (Rubbettino 2014), e di Filosofia dell’individuo e romanzo moderno. Lionel Trilling tra critica letteraria e storia delle idee (Edizioni di Storia e Letteratura, 2019).  

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CHAKIR BOUCHRA

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Le retour de la morale, une questione post-moderne?

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La postmodernité est née dans un contexte général de crise, quelque soit le nom qu’on lui donne: désenchantement du monde, crise de sens, sinistrose, paradoxes de la modernité, malaise de civilisation ou  quête de sens. C’est un mouvement de contestation et de critique de la modernité qui n’a pas su tenir ses promesses. Il ne s’agit pas d’une seule école, mais de plusieurs courants de pensée, au début esthétiques, ensuite philosophiques, politiques, économiques et sociales  qui  dénoncent les grands bouleversements qui marquent notre ère. 

D’une part, la postmodernité est le résultat de la crise économique et ses répercussions sur le lien social et sur les individus. D’autre part, face aux chutes des grandes idéologies qui ont marqué l’histoire, et face  à l’incrédulité vis-à-vis des métarécits et des récits totalisants, de nouvelles théories pour expliquer le monde voient le jour. Celles-ci s’alimentent de la peur et du rejet de tout ce qui est autre et différent. 

D’autres facteurs ont également contribué à l’émergence des questions sur l’identité et le vivre ensemble et à en faire ressortir l’urgence sociale,  politique et sécuritaire. La libéralisation des échanges commerciaux a remis en question les concepts d’identité et de culture nationale. L’éclosion incontrôlée des technologies de l’information et de la communication constitue l’un des enjeux majeurs de la globalisation culturelle. Enfin,  la problématique d’intégration des immigrés et du modèle culturel à adopter a préoccupé plusieurs pays d’accueil. La question identitaire n’est plus de vivre en société mais de s’y intégrer.

La postmodernité en tant que courant de contestation, de scepticisme et de remise en question est un mouvement contagieux puisqu’il s’est répandu jusqu’aux pays arabo-musulmans. Bien avant, la modernité elle-même est parvenue dans ces contrées par le biais de différents moyens tel que le commerce, les voyages, les migrations, le colonialisme, .... 

Certes, l’adhésion des sociétés arabo-musulmanes à la modernité et à la postmodernité à l’occidentale  est critiquable  à plusieurs niveaux (improbable même) et laisse poser plusieurs questions relatives à leurs fondements philosophiques, et historiques et la possibilité ou non, de leur transfert à un paradigme d’application différent. L’étude de ce point débouche sur un impératif éthique qu’on peut résumer dans le droit à la différence.

Par ailleurs, nul ne peut nier aujourd’hui que l’expansion de la postmodernité dans le monde a provoqué de grands mouvements  de révolutions contre les régimes établis. Tout d’abord, le paysage culturel et politique dans certains pays arabo-musulmans a fortement changé. Les années 2011 par exemple, sont marquées par l’explosion des révolutions arabes, dont les plus retentissantes sont en Tunisie et en Egypte. Ces manifestations qui aspirent à plus de justice et d’équité dénotent  que le sens moral est universel, et que le besoin humain de justice, de liberté et de respect de l’individu est partout le même. 

Ensuite, la fin des grands métarécits a fait place à un profond désarroi. Pour le combler, plusieurs mouvements de pensées antagonistes ont émergé. Les fondamentalistes s’opposent aux réformistes, les libéraux aux traditionnels.  Le scepticisme et le doute ont accompagné le questionnement herméneutique des textes fondateurs de l’institution religieuse. Dans ce chaos de sens, les revendications identitaires se heurtent. La société n’est plus une, uniforme et homogène mais plurielle. Dans cette conjoncture,  comment vivre ensemble sans risquer de déranger l’autre, et sans être dérangé par sa différence ? 

La question du rapport à l’autre est des plus emblématiques. Elle se constitue sur un fond  multidimensionnel allant du jugement de valeur (j’aime- je n’aime pas, bon-mauvais, semblable-inférieur, …), à l’acceptation ou au refus. L’autre, en faisant partie de l’espace identitaire, suscite séduction ou rejet, empathie ou indifférence. La crise du vivre ensemble menace la paix dans le monde, et ce à plusieurs niveaux. 

Dans cette perspective, il faudrait  mettre en avant une solution axée sur l’éthique comme dépassement de l’impasse postmoderne, en établissant un socle commun élémentaire de valeurs morales susceptibles  unir les hommes dans ce que Morin appelle « la communauté de destin ». Parmi les piliers sur lesquels reposerait cette éthique figure le dialogue et la reconnaissance réciproque, ou bien pour résumer, l’éthique du droit humain à être différent..

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Short-bio

Maître de Conférences HDR à l’Etablissement Dar el Hadith el Hassania, Université Al Quarraouiyine-Rabat, docteure en littérature et esthétique, ma formation est à la jonction de la littérature et des sciences humaines. Je suis également membre du laboratoire Traduction et Interdisciplinarité à l’Université Cadi Ayyad à Marrakech. Mes préoccupations intellectuelles concernent les questions liées à l’esthétique, l'éthique et le dialogue des cultures et des civilisations. J’ai à mon actif plusieurs articles et ouvrages collectifs, dont le plus récent, édité en 2018, s’intitule: Langue, Culture et Religion : Perspectives Multiculturelles

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LORENZO DENICOLAI

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La scienza, il postmoderno e i media:

immaginari e metanarrazioni

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In La condizione postmoderna Lyotard segnala un problema di legittimazione del sapere a partire da un declino della credibilità delle grandi narrazioni favorito soprattutto dal decollo tecnologico delle società capitaliste (Lyotard, 1979): l’idea centrale dell’intervento è che nei quarant’anni trascorsi da quello studio la crescente popolarità di una certa divulgazione scientifica, a partire dai testi di Stephen Hawking e Kip Thorne, con la nascita di una nuova epica della fisica astronomica, fino al fenomeno recente di Carlo Rovelli o, in generale, agli Angela in Italia, abbia assunto il ruolo di nuova grande metanarrazione. Alle pagine di Lyotard sembrano rifarsi recenti teorie, come quella sull’ipermodernità (Donnarumma, 2014) e sulla digifrenia (Rushkoff, 2014): elementi che contribuiscono a un’ulteriore atomizzazione del sapere. Tali dinamiche paiono alimentare nuove mitologie che vengono divulgate - e in parte costruite - dai media.

Una narrazione condivisa perché strutturata come racconto comprensibile, divulgativo, che si fa filmico e seriale (Interstellar, Arrival, Another Life), o format televisivo di intrattenimento (Cosmos, Morgan Freeman Science Show) legittimando il discorso scientifico sull’origine e la fine del Cosmo e costruendo la possibilità di un “romanzo sull’Universo” (Blumemberg, 1981). Nondimeno, il forte accento narrativo, come suggerisce ancora Lyotard, ha funzione legittimante del discorso sulla conoscenza e le sue ricadute sono molteplici, se pensiamo al successo editoriale di reinterpretazioni dei testi biblici, alla visibilità di comunità di pensiero alternativo come quelle dei terrapiattisti (Behind the Curve, Clark 2018), e alla massiccia presenza nella sfera digitale di documentari più o meno complottisti su Universo, alieni e origini del mondo. 

Prendendo l’avvio da alcuni casi citati, la relazione intende indagare come e quanto la forte caratteristica narrativa che il sapere scientifico ha acquisito dalla pubblicazione del saggio di Lyotard a oggi abbia informato l’immaginario collettivo, e quanto questo possa permetterci di confermare o rivedere parzialmente alla luce della contemporaneità alcune conclusioni del filosofo francese.

In particolare, vorremmo considerare la questione del potere e della forza che la narrazione esercita nella nostra quotidianità, immersa in ciò che Grusin definisce mediazione radicale e che Eugeni, d’altro canto, evidenza come condizione di post-medialità. A un’osservazione ‘sul campo’, sembra che la legittimazione del sapere sia oggi spesso risultato di una costruzione empatica e ovviamente narrativa piuttosto che di un reale fondamento scientifico, validando in qualche misura gli assunti ipotetici di Lyotard e, al contempo, dando una sorta di declinazione dei medesimi. La sensazione è che oggi la comunicazione del messaggio scientifico sia resa più ‘semplice’ e immediata grazie a una rinnovata forza della componente narrativa, sebbene quest’ultima – a differenza delle grandi mitologie dell’arcaicità – non condensi un bagaglio di sapere collettivo costruito sulla sedimentazione formulare di elementi tradizionali, ma piuttosto una serie di veloci e superficiali interpretazioni emotive, utili a costruire immaginari. L’affiorare di posizioni parallele e relativiste su tematiche invece di natura prettamente scientifica e dunque dimostrate ‘fino a prova contraria’ sembra alimentare delle nuove mitologie, delle letture in qualche misura alternative ma fortemente empatiche e coinvolgenti, al punto da minare gli acquisiti assunti del sapere. L’intervento prova a sottolineare questi aspetti, analizzando nello specifico due casi. Il primo è quello del successo editoriale e della popolarità di Mauro Biglino, che grazie a libri come La Bibbia non parla di Dio insiste su un mito alternativo dell’origine dell’umanità, attribuita ad un progetto alieno e fondata su una presunta traduzione letterale dei Testi Sacri. Una narrazione fondativa che non è nuova, e che si inserisce nella cosiddetta “teoria del paleocontatto”, resa celebre fin dagli anni Sessanta da autori come Peter Kolosimo, e già esplorata nel volume UFOs and the Bible di Morris K. Jessup anni prima, che ha fornito materiale a racconti cinematografici e televisivi come Prometheus (2012) o Battlestar Galactica (1979 e 2004). Nella sua rinnovata popolarità, la teoria si fa forte della fascinazione narrativa di un mito sostituivo e la legittima attraverso la “scientificità” di una traduzione autentica rispetto a quella ufficiale, generando, in era digitale, un interessante ecosistema fatto di video-saggi e dibattiti su blog specializzati animati da un fandom fedele e attivo. Il secondo riguarda il movimento internazionale dei terrapiattisti, che fonda la propria proliferazione sulla diffusione capillare nella Rete di interviste e, soprattutto, di materiale visuale – che oggi è elemento principale della narrazione immediata della mediazione radicale – oltre che in raduni-convegni in cui si tenta di dare dimostrazione della non sfericità della Terra attraverso una serie di prove che, paradossalmente, attingono dal metodo scientifico – dunque, per natura, non narrativo. Questa collisione di approcci, fa sì che l’estemporaneità del racconto si confonda con una sorta di scientificità che dovrebbe scardinare i saperi comunemente accettati, tuttavia tramite una sorta di dialettica competitiva secondo cui ‘la scienza ufficiale ha paura di noi’ (dal film Behind the Curve, 2018).

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Short-bio

Lorenzo Denicolai, PhD, è assegnista di ricerca e docente di antropologia dei media all’Università di Torino. La sua ricerca riguarda i media audiovisivi, la relazione uomo-tecnologia e la robotica. Coordina una ricerca sulla comunicazione audiovisiva con persone afasiche. È autore di articoli su riviste accademiche e delle monografie Scritture mediali. Riflessioni, rappresentazioni ed esperienze mediaeducative (Mimesis, 2017, con Alberto Parola), Mediantropi. Introduzione alla quotidianità dell’uomo tecnologico (FrancoAngeli, 2018) e della curatela Digital Education. Ricerche, pratiche ed esperienze nei mondi mediali (Aracne, 2019, con Alberto Parola).

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ESTELLA CIOBANU

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A Farewell to Grand Narratives? 

Contemporary Western Biomedical Science and the

(Post-)Modern Condition

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This paper investigates the condition of contemporary western biomedical science as suggested by its visual output in relation to the postmodern and in particular to Jean-François Lyotard’s proposition about western distrust of metanarratives. I examine four thematically related cases: the Visible Human Project of the US National Library of Medicine (US-VHP, 1994/1995), as well as its Chinese and Korean counterparts since the 2000s; the Anatomage Table (a virtual anatomy dissection table); John McGhee’s medical or medicine-inspired CGI animations; and Gunther von Hagens’s anatomical exhibitions (Körperwelten / Body Worlds). The Visible Human projects, the Anatomage Table, and McGhee’s CGI animations draw on cutting-edge medical imagistic technology. Whether as digital archive of human anatomy, male and female (the VHP), subsequently used in diverse medical applications, including the surgical simulator (as well as hijacked by popular culture), or as “the only fully segmented real human 3D anatomy system” (Anatomage Table official description), the first two cases aim, broadly, to generate and improve biomedical knowledge and/or specific medical skills. McGhee created his early CGI animations in an institutional context intent on enabling doctor–patient medical communication. Von Hagens’s anatomical exhibition series juxtaposes technologically contrived gross anatomy, aesthetically shaped by modernist art and the pop culture of fitness, and democratic audience targeting for anatomical and health education (according to von Hagens) in overtly moral terms (according to critics and fans alike). Particularly the visual/aesthetic equivocality of McGhee’s CGI animations and, however differently, von Hagens’s Body Worlds, would suggest the postmodern propensities of late twentieth- and early twenty-first-century biomedical science, its playful flirtation with undecidability, transdisciplinary hybridity, and levelling of specialist/non-specialist hierarchical dichotomies. The two researchers’ medical goals in conjunction with the target audience are particularly revealing with respect to the above-mentioned postmodern bias. However, the official websites of the VHP and its biomedical applications, if somewhat less of the Anatomage Table, indicate otherwise. By and large, biomedical visual output suggests steadfast, if mute, reliance on the (early) modern anatomical belief in – (soon) supportive of the Enlightenment project of – human progress, epistemic as well as social, through scientific endeavours to better (Socratic) self-knowledge by advancing anatomo-medical knowledge. Lyotard may have been right vis-à-vis some western philosophers’ bias, captured in his famous definition of postmodernism as “incredulity toward metanarratives.” But can biomedical science subscribe to it without thwarting its very raison d’être? My four examples are intended as a test case whereby to enquire into the condition of contemporary biomedical science: Has it ever been other than modern, or, rather, was it otherwise in postmodernity – perhaps not postmodern? Does it point, however locally, to the larger-than-life great expectations of the likes of Lyotard with respect to the demise of metanarratives? Is the informatization of knowledge underpinning contemporary science (particularly biomedicine) one to be suspicious of, as Lyotard himself has been, not only in The Postmodern Condition, as capable of ushering in “the inhuman”? Is it perhaps (also) a token of the greed driving, for better or worse, the modern capitalist machine of progress (as analysed by Stuart Sim)? Incidentally, both the explicit and the implicit choice of specimen genders in all my case studies reinforces the classical default identification of the human body as male, as do particular occupational associations forged in Body Worlds. Does this indicate a postmodern “complicitous critique” of metanarratives, or rather unabashed participation in the very metanarratives, if by remediating (in Jay David Bolter and Richard Grusin’s sense) old topoi and occasionally alloying edutainment with gross consumerism? This paper doesn’t hope as much to answer such questions as to raise them epistemically by recourse to science criticism and gender studies. 

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Short-bio

Estella Ciobanu is associate professor at the Faculty of Letters, Ovidius University of ConstanÅ£a, Romania. She teaches Postmodernism, Gender Studies, and Anglo-American Cultural Icons. She has published on iconization studies and body studies;

recent publications: Representations of the Body in Middle English Biblical Drama (Palgrave Macmillan, 2018), The Body Spectacular in Middle English Theatre (2013), The Spectacle of the Body in Late Medieval England (2012). 

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LORENZO DONGHI

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"Il teatro della ripetizione".

Lasciti deleuziani alle teorie del reenactment

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Chiamando a raccolta una serie di casi filmici tratti dalla recente produzione del cinema documentario internazionale, l'intervento vuole rintracciare e discutere alcuni lasciti teorici che sembrano rendere percorribile una “via deleuziana” all'in person reenactment contemporaneo (Margulies, 2019), inteso come configurazione esemplare di quella ripetizione differenziale con cui Deleuze battezzava la sua speculazione filosofica. Quattro sono i livelli che il discorso intende attraversare. 

 

1. Differenza. Il teatro della ripetizione

Il reenactment non è un esercizio mimetico: ripetere non significa imitare un originale, bensì differire, creare sempre qualcosa di nuovo. Impostazione che, in ottica deleuziana e con particolare riferimento ai primi due capitoli di Differenza e ripetizione, porta a svincolare il reenactment dalla logica rappresentazionale per concepirlo piuttosto come forma della ripetizione. Liberato pertanto dalle subordinazione all'identico, al somigliante, al negativo, ed emancipato così tanto dalla mimesis del dualismo gerarchico platonico, quanto dal “falso movimento” della dialettica hegeliana, il reenactment può allora andare a definirsi in senso eminentemente affermativo.  Reenactment, dunque, non come riflesso di un originale, ma apertura a inedite possibilità d'esperienza, nietzschiana manifestazione della differenza. Da “reenactment dell'evento” a "reenactment come evento” (S. Jasen, 2011).

 

2. Temporalità. Reenactment, o pensiero dell'avvenire

Il reenactment non stringe patti di assoluta fedeltà con ciò che è accaduto, e disattende l'ostinazione storicista di restituire il passato “così come è stato davvero”; riflette piuttosto sulle condizioni grazie a cui la virtualità di cui il passato è gravido può attualizzarsi nel “presente vivente”. Così facendo, predispone però un apparente paradosso temporale: il ritorno nell'ora dell'allora, la pretesa di ripetere un irricominciabile. Un paradosso fantasmatico (B. Nichols, 2008), che andrebbe ripensato in termini di coalescenza: concetto che in Deleuze si concretizza esemplarmente in alcune note immagini topografiche del tempo (la piega, l'immagine-cristallo).  Il “presente vivente” deleuziano come formula calzante con cui dispiegare la temporalità precipua del reenactment (G. Giannachi, 2017); tuttavia, se il “presente vivente” è per Deleuze il tempo del divenire, il reenactment non si dà solo come pensiero della reminescenza: è anche pensiero dell'avvenire, pensiero di un tempo-a-venire.

 

3. Contro-effettuazione. Essere degni di ciò che (ri)accade

La contro-effettuazione dell'accadimento è per Deleuze la logica dell'evento: doppio movimento che cattura l'esperienza e ne sprigiona il senso. Ma per Deleuze tanto la rappresentazione, quanto il suo correlato soggettivo, scontano la loro origine comune in un'istanza di tipo moralistico: dunque, destituzione della rappresentazione e della prospettiva personalistica richiedono una rottura con il predominio della morale. Su questo sfondo, il reenactment si delinea allora come manifestazione intensiva di corpi – campi di forze, più che soggetti – di cui non è dato conoscere in partenza le potenzialità, e che si piegano e dispiegano su un piano d'immanenza, rifiutando ogni teleologia e disfando ogni elemento valutativo, aprioristico e trascendente. Ma qual è allora l'etica del reenactment? Nel ripetere, come abitare quel divenireche si è? La risposta di Deleuze non potrebbe che essere spinoziana: «essere degni di ciò che accade»; dimostrarsi all'altezza della differenza, rinunciare a una valutazione normativa di ordine morale dell'esistente per esaltare il carattere assoluto dell'esperienza.

 

4. Impersonale. Splendore del si senza il sé

Nella configurazione ripiegata del reenactment la performance del reenactor è sottoposta alla e orientata dalla presenza altrui. Il reenactment non va infatti a definire una manovra autotelica, autistica, una nostalgica azione di recupero condotta in solitaria verso un passato perduto; profila semmai un gesto intersoggettivo, condiviso. Un gesto testimoniale e dunque duplice: gesto di conversione del vissuto in performance e, al contempo, gesto di consegna di tale processualità a un destinatario (che risulta, peraltro, sempre implicato nella costruzione del suo senso: J. Allen, 2009). Reenactment allora come tentativo di ritovare l'atto del vivente al di sotto del divenuto: tentativo cioè di raddoppiare l'ordine degli accadimenti con una contro-effettuazione che li trasfigura, li rimette in gioco e li rilancia. Laddove per Deleuze trionfa lo splendore del si (senza il sé): laddove, cioè, è possibile cogliere il senso virtuale, neutro, pre-individuale – impersonale – dell'evento. Reenactment, quindi, come perdita del nome proprio: non io soffro, ma si soffre; non la mia ferita, ma una ferita.

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Short-bio

Assegnista di ricerca presso l'Università di Pavia, si occupa prevalentemente di studi cinematografici e visuali; attualmente ha aperto una ricerca triennale che interroga teorie e forme del reenactment tra arti visive e performative. Svolge attività didattica presso la IULM di Milano, è membro delSelf Media Lab, centro studi dell'Università di Pavia, e della redazione della rivista "la Valle dell'Eden". E' autore della monografia Scenari della guerra al terrore (Bulzoni 2016), co-curatore di Al presente. segni, immagini, rappresentazioni della memoria (Pavia University Press, 20179 e di A mezzi termini. Forme della contaminazione dal XX secolo (MImesis, 2019). 

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GIACOMO FUK 

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Donald Judd: moderne et postmoderne

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Vers la moitié des années soixante, des artistes américains comme Carl Andre, Donald Judd, Sol LeWitt, Robert Morris, Richard Serra commencent à produire des objets tridimensionnels visant à créer des relations spatiales avec l’espace ambiant et le spectateur, par opposition à la sculpture comme œuvre à contempler. En abandonnant les références cubistes de sculpteurs de la génération précédente comme David Smith, ils se tournent vers l’exemple des peintres, notamment Jackson Pollock et Barnett Newman, qui ont écarté la composition d’un espace illusoire intérieur au tableau au profit d’une projection vers l’espace extérieur, grâce à l’échelle monumentale et au traitement uniforme de la surface du tableau. L’expansion de l’œuvre vers l’extérieur – reprise en sculpture à travers une simplification radicale des formes, des couleurs, des matériaux – implique une spatialité architecturale, que Morris théorise explicitement en 1966.

Judd (1928-1994), dont le tempérament d’artisan était étranger à la littérature et à la performance, restera obstinément fidèle aux prémisses formelles des expériences des années soixante. Hostile aux associations psychologiques et aux élaborations intellectuelles (en polémique avec des artistes apparemment proches de lui tels que Morris ou Robert Smithson et avec la vulgarisation des idées de Marcel Duchamp), Judd revendique dès 1977 la proximité de son propre travail avec l’architecture. En même temps, il commence à dénoncer la dévastation urbanistique aux Etats-Unis, liée à son avis à la destruction des cultures locales par le marché et l’industrialisation et à l’uniformisation culturelle de la société, dominée par la mentalité de la middle class (produit spécifique, selon Judd, de la révolution industrielle et des états-nations centralisés).

Ces propos sembleraient rejoindre le débat architectural américain des années soixante-dix et quatre-vingt proposant le « régionalisme » et la réévaluation de l’architecture « vernaculaire » et se démarquant par rapport à ce que les Américains appellent modernism (en Europe appelé plutôt « avant-garde » ; dans ce cas, la référence est surtout à Ludwig Mies van der Rohe et à ses épigones). Ces tendances sont en fait indiquées par leurs théoriciens comme post-modernism. L’exposition La Présence du passé à la Biennale de Venise de 1980 les consacrera officiellement. A la même époque, la critique d’art Rosalind Krauss inscrit dans les confins incertains du post-modernism l’œuvre de Judd, enfant, d’après elle, moins du constructivisme russe que de la pop culture américaine. Mais Judd a refusé cette référence à la pop culture, critiquant son utilisation par Andy Warhol, et a revendiqué son propre lien avec le modernism.

A partir de 1983, Judd conteste ouvertement l’architecture post-modern, en s’en prenant à l’apologie du « vernaculaire » par Robert Venturi et Denise Scott-Brown, à l’éclectisme de Philip Johnson et à la critique des avant-gardes. Pour Judd, le post-modern fait partie de cet aplatissement auquel ses tenants voudraient s’opposer, en faisant passer le mauvais goût de la classe moyenne pour une culture populaire en réalité déjà balayée par les modes de production modernes. A l’interprétation esthétique des problèmes sociaux, typique des architectes post-modern, Judd oppose l’interprétation sociale des problèmes esthétiques ; au revival, la vitalité du passé ; au pastiche à prétention d’ironie, la distance critique. Les grands installations permanentes qu’il a montées au Texas à partir de 1979 manifestent concrètement son idée d’art, d’architecture et d’espace et démontrent à leur manière l’évitabilité des récupérations stylistiques, de l’architecture représentative et du design allégorique.

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Short-bio

Après des études d'histoire de la philosophie, Giacomo Fuk a obtenu son doctorat en histoire et théorie de l'art en 2016 à l'EHESS de Paris avec une thèse sur Louis Marin. Il s'est occupé d'histoire de l'art avec un travail de recherche et d'édition sur l'artiste Maria Lai et avec des recherches sur les relations entre art et poésie.

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LEONARDO GANDINI 

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Manchurian candidate prima e dopo il postmoderno

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Tra la prima e la seconda versione per il grande schermo del romanzo The Manchurian Candidate si misura la distanza tra una cultura visiva dove è ancora possibile valutare l'incongruenza narrativa di un'immagine ed un panorama iconografico dove nel frattempo il cinema postmoderno ha contribuito ad una proliferazione incontrollata delle possibili forme ed identità delle immagini.

 

Short-bio

Professore Associato di Cinema, Fotografia e Televisione all’Università di Modena e Reggio Emilia e afferisce al Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali di Modena, dove è titolare di insegnamenti in Storia del cinema ed ed Estetica del cinema. E’ membro del Collegio dei Docenti del Dottorato di Ricerca in Storia dell’Arte, Cinema, Media Audiovisivi e Musica che ha sede amministrativa presso l’Università di Udine. 

I suoi interessi di ricerca riguardano il cinema hollywoodiano classico, il cinema hollywoodiano contemporaneo, la rappresentazione della violenza nel cinema, l’iconografia del cinema, il rapporto tra memoria e mass-media. 

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MICHAL KRZYKAWSKI 

 

Pour un nouveau rapport sur le savoir à l’âge de la computation généralisée

 

L’un des mérites de Jean-François Lyotard est d’avoir souligné dans son fameux «rapport sur le savoir» que la transformation technologique générale issue du développement dans le champ de la cybernétique a induit une transformation sans précédent de la nature du savoir. L’objectif général de ma présentation sera de reprendre les analyses lyotardiennes de cette transformation depuis l’époque où ce n’est plus «le bit» comme unité d’information qui est en jeu pour ce qui est du «devenir opérationnel» mais des quantités de pétabits, massifiés et algorithmisés hors de tout contrôle social – et cela avec une vitesse de calcul pouvant être quantre millions de fois plus grande que nos systèmes nerveux.

Relire La Condition postmoderne depuis la perspective du savoir dans son rapport avec la technologie requiert un changement d’optique qui aille au-delà de la reception du texte de Lyotard, notamment Outre-Atlantique. Dans un premier temps, en insistant après Lyotard sur le fait que «le savoir [...] ne se réduit pas à la science, ni même à la connaissance», il s’agira donc de voir le statut du savoir à l’âge de la computation et de poser que le savoir, en tant que question de traduction (et de transduction, pour le dire comme Simondon), doit être repensé à la fois comme irréductible au knowledge du modèle computationnel cognitiviste et comme question techno-logique. Dans un deuxième temps, en s’inspirant des travaux de Bernard Stiegler, dont ses relectures aussi critiques que complices de Lyotard, je me concentrerai sur le sens de la «condition» dans «la condition postmoderne». S’il nous faut aujourd’hui repenser cette condition bien au-delà du « postmoderne », mais toujours à partir de Lyotard, c’est parce que cette condition s’impose de nos jours comme une mutation tout à fait nouvelle de ce que Lyotard aura décrit comme «l’inhumain», plutôt que «postmoderne».

 

Short-bio

MichaÅ‚ Krzykawski est directeur du Centre for Critical Technology Studies à l’Université de Silésie à Katowice et membre du collectif Internation/Geneva2020. Auteur de nombreux travaux sur la philosophie française contemporaine, dont, en polonais, L’autre et le commun. Trente-cinq ans de philosophie française (Warszawa 2017), il est actuellement à L’Institut de recherche et d’innovation auprès du Centre Pompidou où il effectue, en collaboration avec Bernard Stiegler, son projet de recherche, Re:constituer l’Europe: 2014-2019 et au-delà.

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ALEXANDRU MATEI

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Post-modern-east ou comment put-on ere "post-moderne sans post-modernitè" et sans Lyotard

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Une fois passé en Europe, le « post-modernisme » (soit la « postmodernité », soit le « postmoderne ») s’associe à une réflexivité discursive accrue, dont l’interprétation de l’Histoire moderne comme récit (ou bien méta-récit) n’est que l’un des effets qui portent le plus à conséquence dans le champ de la théorie. Mais si cette réflexivité prend naissance dans une société qui, depuis la fin des années 1960, assiste à un certain nombre de changements sociaux, économiques et d’éthos (et bientôt politiques), rien ne prépare, apparemment, son passage au-delà du rideau de fer, dans une Europe soumise encore à des régimes socio-économiques plus ou moins marxistes.

Notre étude se propose de retracer l’histoire de la réception roumaine du terme, notamment dans sa version épistémologique, lyotardienne. On retrouvera ainsi, en creux, les contours d’une fausse réflexivité dont les limites, invisibles alors, se laissent expliquer aujourd’hui précisément à la lumière d’un partage du champ culturel décidé au sommet du régime politique, entre un domaine « esthétique », des formes, et un domaine « idéologique », de l’Histoire, avant 1989 ; et, après la chute du communisme, par une volonté toute moderne d’Histoire de la part d’un groupe d’intellectuels qui avaient si bien intériorisé le partage du champ jusqu’à ce que celui-ci est devenu une séparation « naturelle » : théorie et critique des formes d’une part, théorie et critique de la société de l’autre. 

Or, la « condition postmoderne » de Lyotard proposait un « jeu de langage » qui menaçait à la fois le sérieux du discours politique officiel (ce qui rendait le postmodernisme subversif) et le sérieux de leurs propres discours : l’histoire de la littérature, l’autonomie de l’art et de l’esthétique – bref, toute la dichotomie discursive qu’un régime totalitaire entretient, entre « le vrai » et « le faux ». 

Si les intellectuels roumains anglophones se sont faits les passeurs du débat postmoderne américain, ils ont peu pensé à ce que Lyotard appelle un « transfert » de discours, autrement dit à penser les conditions pragmatiques qui sont celles du « postmoderne » en Roumanie et dans l’Europe de l’Est. Si l’expérience française nous montre que c’est précisément par la réflexivité qu’il faut décider pour ou contre l’importation théorique, l’expérience de l’Est nous montre comment la charnière de 1989 a contribué à maintenir séparés deux « postmodernismes » : d’une part, un postmodernisme esthétique (et une postmodernité d’éthos), qui a mobilisé les esprits, et d’autre part un postmodernisme social devant lequel les mêmes intellectuels étaient démunis. Cet apparent paradoxe se laisse voir à la lecture d’un des plus connus essais écrits en Roumanie à propos du moment postmoderne : « D’un postmodernisme sans rivages et d’un postmodernisme sans postmodernité », de Mircea Martin (Euresis, 1995, p. 3-13). 

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Short-bio

Alexandru Matei is Associate professor at the University Transilvania, Brasov, and Associate researcher CEREFREA, University of Bucharest. PhD in French contemporary literature at Ecole des Hautes Etudes Supérieures, Paris, University of Bucharest, (Jean Echenoz’ novels), 2007; Bourse de la Ville de Paris, 2011; Post-doc Fellowship at New Europe College, Bucharest, 2013-2014; Translation grant to the Institute for Human Sciences, Vienna, 2016 for translating Roland Barthes’ The Neutral. He teaches French modern/contemporary culture and literature; he translates books from French into Romanian (theory: Jean Baudrillard, Bruno Latour, Roland Barthes).

Among his books: Roland Barthes, Romanian Mythologies (Bucharest, 2017); Jean Echenoz et la distance intérieure (Paris, 2013); A Captivating Tribune. Television, Ideology, Society in Socialist Romania (Bucharest, 2013); The Last Days of Literature. Small and Huge in French Contemporary Literature (Bucharest, 2008). 

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ESTELLE MOUTON-ROVIRA

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Réflexivité et métatextualité dans le récit contemporain français: une veine postmoderne?

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La notion même de « contemporain » (et sa variante, l’ « extrême-contemporain », expression forgée par Michel Chaillou) semble se substituer à celle de post-moderne qui a, en ce qui concerne le récit contemporain français, échoué à devenir une catégorie critique stable. Le « contemporain » privilégie, contrairement au post-moderne, une chronologie moins linéaire et s’inscrit dans une temporalité moins téléologique. Cependant, la veine réflexive du récit contemporain français, des années 1980 à aujourd’hui, représentée par des auteurs comme Jean Échenoz, Éric Chevillard, Christine Montalbetti ou encore Tanguy Viel, parce qu’elle mobilise un rapport ludique et souvent ironique au récit, pourrait constituer un moment postmoderne de la fiction française, tout comme la pratique systématique d’une métatextualité dynamique a pu être caractéristique du postmodernisme américain. On interrogera ainsi l’abandon relatif de la notion de postmodernité pour caractériser ce type de récits, pourtant héritiers du soupçon par leur mode d’énonciation (sceptique) et leur narration menée parfois au second degré (on en aperçoit les rouages), mais tributaires d’un « après », notamment par leur rapport renouvelé au dehors du texte, dont témoigne par exemple le traitement littéraire des figures de lecteur. En revenant ainsi sur les partis pris critiques qui ont privilégié d’autres catégories, on réfléchira à la pertinence et à la réhabilitation possible du « récit postmoderne », qu’Aron Kibédi Varga avait théorisé en 1980, tout en cherchant à comprendre les conséquences, sur le plan critique, de l’évitement de la notion par les périodisations actuelles du contemporain.

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Short-bio

Ancienne élève de l’ENS de Lyon, agrégée de Lettres Modernes, Estelle Mouton-Rovira est Maîtresse de conférences à l’Université Bordeaux-Montaigne. Elle a soutenu en 2017 une thèse intitulée Théories et imaginaires de la lecture dans le récit contemporain français. Ses travaux actuels portent sur la littérature contemporaine (Pierre Bergounioux, Arno Bertina, Emmanuel Carrère, Éric Chevillard, Emmanuelle Pireyre, Olivia Rosenthal, Pierre Senges) et sur les théories de la lecture et de l’interprétation; elle s’intéresse également à la réception de la littérature numérique. 

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NANCY MURZILLI

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Postmoderne, où est la sortie? Vers une réinstituion des formes de critique sociale par l'art  

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“On a pris le pli de juger le présent lui-même d’un point de vue historique; à peine un nouvel “isme” a-t-il surgi, on croit qu’un homme nouveau est né, et chaque fin d’année scolaire représente l’avènement d’une époque nouvelle.” 

Robert Musil, Essais, Le Seuil, 1984, p. 148

 

Le “postisme” (Habermas 1988) a témoigné de ce qui fut considéré par les adeptes du postmodernisme comme une situation sans précédent : celle de l’épuisement d’une histoire ou la fin des grands récits (Lyotard 1979) - de l’Etre, de la métaphysique, de la philosophie, etc -, mais que l’on pourrait tout aussi bien inscrire dans ce que Musil considérait, un demi siècle plus tôt, comme un penchant pour une “historicisation du présent”. Le paradoxe d’un discours sur la fin des discours sur la fin (Malavasi 2017, Ruffel 2016), à compter qu’il soit possible et souhaitable, tient sans doute dans le fait que les défenseurs de la postmodernité partagent à leur insu une conception globalisante de l’histoire avec ceux dont ils proclament la fin des idéaux (Cometti 1996). Comment en sortir sans être reconduit à la construction d’un nouveau méta-récit ? Peut-être, pour y parvenir, s’agit-il moins de théoriser une nouvelle conception épochale, que de construire des agendas (Quintyn 2015) où la critique et la théorie, d’interprétatives, deviennent praxis, action politique (Citton 2012, Giglioli 2011, Hanna 2010). Cela suppose d’interroger de nouvelles formes d’agentivité qui reconnecteraient les pratiques humaines non à l’idée d’un progrès ou d’un sens historique, mais à l’idée pragmatiste d’un espoir social (Rorty 1999). Cette communication se propose d’analyser des formes d’agentivité artistique émergeantes capables de produire des dispositifs instrumentaux à même de désinvisibiliser des problèmes publics en mettant expérimentalement en crise des concepts impliqués dans la fabrique du social (politique, valeur, justice). De telles pratiques artistiques (The Yes Men, bureaudetudes.org, Agence de notation, Franck Leibovici, Mark Lombardi, Jean Gilbert, etc) pourraient dépasser le stade postmoderniste du capitalisme - où la fusion entre art, culture et économie laisse faussement croire à un dépassement de l’autonomie de l’art (Cometti 2016) - et rendre la critique institutionnelle artistique transitive et opérante en se livrant à des “pratiques critiques transinstitutionnelles” (Quintyn 2015) qui renouvellent, en les réarticulant autrement, les interactions sociales entre acteurs et institutions au sein de contextes sociaux particuliers.

 

Short-bio

Nancy Murzilli est docteur en philosophie esthétique, maîtresse de conférences à l’Université Paris 8. Elle est membre du laboratoire “Littérature, histoires, esthétique” et membre associée de l’ARGEC. Elle dirige le programme de recherche-création “Evaluation générale. L’Agence de notation comme dispositif artistique” (evalge.hypotheses.org) financé par l’EUR ArTeC. Ses travaux portent sur la philosophie de la fiction, les pratiques artistiques agentives, l’esthétique pragmatique de la création et de la réception. Parmi ses récentes publications : Pratiques artistiques intermédiales (E. Bricco et N. Murzilli (dir.), Publifarum, n°29, 2018), Formes littéraires à l’essai. Sur l’agentivité collective des écritures hors du livre ("Littérature", n° 192, 2018), In guerra con le parole. Il primo conflitto mondiale dalle testimonianze scritte alla memoria multimediale (F. Caffarena et N. Murzilli (dir.), Fondazione Museo Storico del Trentino, 2018) et prochainement La littérature et les arts. Paroles d’écrivains (M. Amatulli, E. Bricco, N. Murzilli, C. Rolla, "Publifarum", n° 30).

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NENCIONI GIACOMO

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La scienza, il postmoderno e i media:

immaginari e metanarrazioni

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In La condizione postmoderna Lyotard segnala un problema di legittimazione del sapere a partire da un declino della credibilità delle grandi narrazioni favorito soprattutto dal decollo tecnologico delle società capitaliste (Lyotard, 1979): l’idea centrale dell’intervento è che nei quarant’anni trascorsi da quello studio la crescente popolarità di una certa divulgazione scientifica, a partire dai testi di Stephen Hawking e Kip Thorne, con la nascita di una nuova epica della fisica astronomica, fino al fenomeno recente di Carlo Rovelli o, in generale, agli Angela in Italia, abbia assunto il ruolo di nuova grande metanarrazione. Alle pagine di Lyotard sembrano rifarsi recenti teorie, come quella sull’ipermodernità (Donnarumma, 2014) e sulla digifrenia (Rushkoff, 2014): elementi che contribuiscono a un’ulteriore atomizzazione del sapere. Tali dinamiche paiono alimentare nuove mitologie che vengono divulgate - e in parte costruite - dai media.

Una narrazione condivisa perché strutturata come racconto comprensibile, divulgativo, che si fa filmico e seriale (Interstellar, Arrival, Another Life), o format televisivo di intrattenimento (Cosmos, Morgan Freeman Science Show) legittimando il discorso scientifico sull’origine e la fine del Cosmo e costruendo la possibilità di un “romanzo sull’Universo” (Blumemberg, 1981). Nondimeno, il forte accento narrativo, come suggerisce ancora Lyotard, ha funzione legittimante del discorso sulla conoscenza e le sue ricadute sono molteplici, se pensiamo al successo editoriale di reinterpretazioni dei testi biblici, alla visibilità di comunità di pensiero alternativo come quelle dei terrapiattisti (Behind the Curve, Clark 2018), e alla massiccia presenza nella sfera digitale di documentari più o meno complottisti su Universo, alieni e origini del mondo. 

Prendendo l’avvio da alcuni casi citati, la relazione intende indagare come e quanto la forte caratteristica narrativa che il sapere scientifico ha acquisito dalla pubblicazione del saggio di Lyotard a oggi abbia informato l’immaginario collettivo, e quanto questo possa permetterci di confermare o rivedere parzialmente alla luce della contemporaneità alcune conclusioni del filosofo francese.

In particolare, vorremmo considerare la questione del potere e della forza che la narrazione esercita nella nostra quotidianità, immersa in ciò che Grusin definisce mediazione radicale e che Eugeni, d’altro canto, evidenza come condizione di post-medialità. A un’osservazione ‘sul campo’, sembra che la legittimazione del sapere sia oggi spesso risultato di una costruzione empatica e ovviamente narrativa piuttosto che di un reale fondamento scientifico, validando in qualche misura gli assunti ipotetici di Lyotard e, al contempo, dando una sorta di declinazione dei medesimi. La sensazione è che oggi la comunicazione del messaggio scientifico sia resa più ‘semplice’ e immediata grazie a una rinnovata forza della componente narrativa, sebbene quest’ultima – a differenza delle grandi mitologie dell’arcaicità – non condensi un bagaglio di sapere collettivo costruito sulla sedimentazione formulare di elementi tradizionali, ma piuttosto una serie di veloci e superficiali interpretazioni emotive, utili a costruire immaginari. L’affiorare di posizioni parallele e relativiste su tematiche invece di natura prettamente scientifica e dunque dimostrate ‘fino a prova contraria’ sembra alimentare delle nuove mitologie, delle letture in qualche misura alternative ma fortemente empatiche e coinvolgenti, al punto da minare gli acquisiti assunti del sapere. L’intervento prova a sottolineare questi aspetti, analizzando nello specifico due casi. Il primo è quello del successo editoriale e della popolarità di Mauro Biglino, che grazie a libri come La Bibbia non parla di Dio insiste su un mito alternativo dell’origine dell’umanità, attribuita ad un progetto alieno e fondata su una presunta traduzione letterale dei Testi Sacri. Una narrazione fondativa che non è nuova, e che si inserisce nella cosiddetta “teoria del paleocontatto”, resa celebre fin dagli anni Sessanta da autori come Peter Kolosimo, e già esplorata nel volume UFOs and the Bible di Morris K. Jessup anni prima, che ha fornito materiale a racconti cinematografici e televisivi come Prometheus (2012) o Battlestar Galactica (1979 e 2004). Nella sua rinnovata popolarità, la teoria si fa forte della fascinazione narrativa di un mito sostituivo e la legittima attraverso la “scientificità” di una traduzione autentica rispetto a quella ufficiale, generando, in era digitale, un interessante ecosistema fatto di video-saggi e dibattiti su blog specializzati animati da un fandom fedele e attivo. Il secondo riguarda il movimento internazionale dei terrapiattisti, che fonda la propria proliferazione sulla diffusione capillare nella Rete di interviste e, soprattutto, di materiale visuale – che oggi è elemento principale della narrazione immediata della mediazione radicale – oltre che in raduni-convegni in cui si tenta di dare dimostrazione della non sfericità della Terra attraverso una serie di prove che, paradossalmente, attingono dal metodo scientifico – dunque, per natura, non narrativo. Questa collisione di approcci, fa sì che l’estemporaneità del racconto si confonda con una sorta di scientificità che dovrebbe scardinare i saperi comunemente accettati, tuttavia tramite una sorta di dialettica competitiva secondo cui ‘la scienza ufficiale ha paura di noi’ (dal film Behind the Curve, 2018).

 

Short-bio

Giacomo Nencioni (Pietrasanta, 1981) è ricercatore presso il DISUCOM dell’Università degli Studi della Tuscia, dove insegna Teorie e Tecniche del Linguaggio Filmico e Storytelling e produzione multimediale. Si è occupato principalmente di televisione e serialità, media digitali, social network, culture convergenti. Ha scritto per riviste e volumi internazionali ed è autore, con Enrico Menduni e Michele Pannozzo, di Social Network (Mondadori Università, 2011) e del recente Lo specchio nero. Teorie, utopie e visioni distopiche dei media digitali (Sefap Libri, 2017).

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MARINA ORTRUD  M. HERTRAMPF 

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Le vieillissement de l’esthétique postmoderne ou l’héritage postmoderne chez Sophie Calle et Patrick Deville

 

Si s’est par la suite des textes théoriques comme La condition postmoderne de Jean-François Lyotard ou tout simplement par la puissance innovatrice d’une nouvelle génération de jeunes écrivains et artistes qui entre sur la scène culturelle française, le début des années 80 est marqué par un renouveau esthétique qu’on a vite estampillé « postmoderne ». En ce qui concerne des œuvres littéraires, dites postmodernes, il y sans aucun doute un nombre de attributs majeurs tel que la fragmentation des textes, la brièveté, le plaisir du jeu avec la langue, la phrase et la cadence, l’attrait pour les enjeux intertextuels et intermédiaux de même qu’une prédilection pour des lieux postmodernes (c’est-à-dire les espaces transitionnels et les non-lieux), mais aussi pour les phénomènes d’hyperréalité, de l’inauthenticité et du simulacre. En effet, les œuvres des années 80 et 90 de l’écrivaine-photographe Sophie Calle et l’écrivain Patrick Deville sont des exemples emblématiques d’une telle esthétique postmoderne. Le tournant du siècle marque pourtant une certaine péripétie esthétique – pas seulement dans les œuvres de Sophie Calle et de Patrick Deville mais aussi dans les œuvres de la plupart des écrivains postmodernes. Selon nous, il ne s’agit pourtant pas d’une rupture nette et absolue comparable au renoncement des nouveaux romanciers à leurs maximes théoriques mais plutôt d’une évolution lente et progressive. Le but de notre communication sera donc de démontrer que Sophie Calle et de Patrick Deville poursuivent écrire le projet postmoderne mais sous d’autres signes. Nous y soutenons la thèse que l’expérience des changements de la réception et perception dans un monde digitalisé et mondialisé d’un côté et le fait du vieillissement des auteurs postmodernes (et avec cela l’expérience douloureuse de maladies et de la mort des proches) de l’autre aboutissent quasi forcément à une mouvance vers d’autres aspects esthétiques et thématiques tels qu’un style beaucoup plus sobre et sérieux, l’intérêt pour l’authenticité, l’enracinement de l’individu dans l’histoire individuelle et collective et des questions existentielles. Sur la base des lectures approfondies des six rééditions (toujours enrichies de nouvelles microfictions phototextuelles)Des histoires vraies de Sophie Calle et de l’œuvre complète de Patrick Deville, nous détaillerons les relations entre l’héritage de l’esthétique postmoderne et ses dérives esthétiques sous le signe du vieillissement des auteurs.

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Short bio

Marina Ortrud M. Hertrampf est professeur assistant des littératures francophones et hispanophones à l’université de Ratisbonne. Actuellement, elle est professeur invité à l’Université Humboldt à Berlin. 

Ses domaines de recherche incluent la littérature francophone contemporaine, l’intermédialité, la BD, l’espace dans la littérature, les littératures rrom, la littérature française de la Grande Guerre, la littérature espagnole de l’âge d’or (16e/17e siècles). Elle travaille intensivement sur Romain Rolland, Patrick Deville, Annie Ernaux et Shumona Sinha

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ANNALISA PELLINO

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Prove istituzionali di (post-)modernità non occidentale

nelle piattaforme discorsive di Documenta XI (2002)

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Cartina di tornasole del tardo-capitalismo transnazionale l’arte contemporanea ha conosciuto a partire dagli anni ‘90 un’estensione globale dei suoi circuiti di produzione, distribuzione e ricezione. La proliferazione delle biennali anche nei “paesi in via di sviluppo” – spesso privi di una propria tradizione disciplinare storico-artistica (Elkins, 2006) – ha prodotto nuove forme di colonialismo culturale. L’effetto boomerang di questo movimento centrifugo è stata l’irruzione di istanze e prospettive “ec-centriche” all’interno della narrazione lineare e universalista dell’arte e della cultura occidentale. L'intervento invita a prenderle in considerazione provando a stabilire una connessione tra la critica postcoloniale al canone occidentale e alle sue istituzioni e l’idea di un postmoderno inteso non come superamento del moderno (Heller, 2009), ma come formazione interna alla sua trama (Hall, 1986; Franzini, 2019) già in nuce nella costante dialettica fra tradizione e avanguardia (Mordacci, 2017). 

Le teorie postmoderne registrano una debolezza nell’impalcatura del sapere moderno, ma non di quello occidentale, rimanendo nel suo stesso recinto epistemologico e derogando all’impegno della decostruzione messa in atto invece dalle teorie post-strutturaliste, femministe e dagli studi culturali postcoloniali nonché, in ambito storico-artistico, dalla critica istituzionale (Alberro, Stimson, 2011). Infatti è nei tentativi di decolonizzazione dell’arte contemporanea che la tensione critica del modernismo – ormai libero dalla tara del canone, dello stile e dell’autonomia dell’arte – ha modo di rilocarsi, riconoscendo la moltiplicazione delle narrazioni e dei soggetti e l’idea della convergenza fra diverse modernità all’interno della cosiddetta “costellazione postcoloniale” (Enwezor 2002, 2008). In un contesto pluricentrico che smaschera l’incorporazione primitivista dell'alterità razzializzata e stereotipata da parte dell’arte modernista, Documenta XI (2002) propone un decentramento dell’arte contemporanea attraverso due principali strategie: la creolizzazione delle pratiche e la deterritorializzazione delle istituzioni. 

L’intervento analizza come all’indomani dell’11 settembre 2001 – non a caso proprio nel momento in cui il postmoderno comincia a mostrare i suoi limiti (Mordacci, 2017) – la più tradizionale delle grandi esposizioni figlie del protocollo museologico nord-atlantico sia diventata un banco di prova fondamentale per misurare le possibilità di un approccio discorsivo alla pratica curatoriale intesa come “dispositivo critico” (Chambers, 2018). 

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Short-bio

Annalisa Pellino è dottoranda in Visual and Media Studies presso l’Università IULM di Milano. I suoi interessi di ricerca si collocano nel campo dei Visual Culture Studies con particolare riferimento ai lens- e time-based media, all’immagine-in-movimento e alla convergenza tra il cinema e l’arte contemporanea. Fa parte del comitato organizzativo della MAGIS - International Film Studies - Spring School, Film Forum dell’Università degli Studi di Udine – Gorizia, per la sezione di Cinema and Contemporary Arts. È contributor writer per Droste Effect mag e Flash Art e collabora con Wild Strawberries e Recomtemporary, spazi no-profit dediti alla ricerca sull’immagine in movimento.

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STEVEN SAULNIER-SINAN

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La distraction comme signe d'une hypermodernité, une ethnographie de l'urbain à l'heure du smartphone

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L’expérience urbaine semble aujourd’hui sous l’influence d’une pensée par le flux généré par et générant des industries culturelles dégradantes dans une « succession automatique d’opérations standardisées ». Face à ce constat, nous partons à la recherche des significations de pratiques contemporaines associées à l’objet technique complexe présent dans toutes les mains, le smartphone. Avec un capitalisme de la distraction engendré par une prégnance croissante de ces outils numériques du quotidien, nous nous demandons quel urbain cela implique. Au travers d’une enquête pluriforme (observations directes, entretiens, navigations commentées), notre recherche questionne des fragments d’histoires quotidiennes révélant la distraction comme signe d’une hypermodernité de l’urbain. Cette recherche requestionne les modernités autant dans leurs enjeux globaux que dans leur effet très localisé et parfois de l’ordre de l’infra, du phénomène ou de l’expérience.

Cette ethnographie de l’action met en exergue des marqueurs d’évolution des configurations formant les ambiances dans des bouleversements majeurs de nos cadres de vie. Nous trouvons dans la lecture sensible des quotidiens de nouvelles modulations de nos attentions qui serait le produit d’une distraction généralisée et intense par les objets numériques. La modulation dans toutes ses formes, donne à voir les fondements des rythmes de vie et révèle l’intensité de notre rapport au monde dans l’habitude et le récit d’un quotidien ritualisé. L’urgence d’un réexamen des pratiques de l’urbain hyperstimulant semble être utile pour redéfinir une critique des pouvoirs dans les réalités observables faisant résonner individualité, objet et monde dans une composition digne d’Edgar Varèse. L’abondance rapide et manifeste des distractions des objets techniques offre autant l’imaginaire d’une prophétie que d’une catastrophe hors de toute échelle humaine. Nous déconstruisons des œuvres singulières que sont des situations quotidiennes pour en comprendre les agencements de modulations (bulle, émergence, envoûtement, résonnance, saillance, et cetera) sans exhaustivité aucune, mais mettant en lumière des jeux de relations en action et bouleversées par cet objet technique hors des communs.

Dans une réémergence d’une critique des pensées établit, nous observons cette nouvelle gouvernementalité de la sphère du numérique qui transforme nos corps et aspirations de citadin avec un instrument de pouvoir à la fois fascinant, mais aussi créant une rupture dans les quotidiens. Une certaine perte de contrôle de nos quotidiens apparait avec comme seules possibilités l’aliénation face à une rupture massive entre structure technique et structure sociale. Nous tenterons de (re)construire les épistémés de notre époque avec méfiance face à ces bouleversements par une enquête archéologique des structures sous-jacentes à nos quotidiens. En effet, ces pratiques individualisantes du smartphone dans l’espace public questionnent les rythmes, transitions ou encore affects de nos expériences. Ces nouvelles configurations ambiantes semblent nous pousser vers une nouvelle disparition des lucioles pour un hédonisme consumériste de la distraction. Maintenant, jusqu’où cette société de - l’hyper – nous stimulera, est-ce vers une libération ou vers un effondrement des pratiques ?

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Short-bio

Steven Saulnier-Sinan est architecte de formation et enseigne les sciences humaines et sociales pour l’architecture à l’ENSA de Grenoble. Il est doctorant dans l’équipe CRESSON de l’UMR MCC/CNRS 1563 Ambiances, Architectures, Urbanités. Ses thématiques de recherche sont les nouvelles formes de pouvoirs, les attentions en milieux urbains et les ambiances dites intelligentes, qu’il développe au travers d’une approche sensible de l’espace public en France, au Danemark et au Royaume-Uni.

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PATRICIA ÅžOITU

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Food porn at the crossroads: between postmodernism and digimodernism in Stephanie Sarley's (Un)orthodox Visual Art 

 

Since its emergence in the late 1990s, the cultural paradigm of digimodernism has been regarded as a hybrid product, born out of postmodernism’s toxic ashes. Meant both as a continuation and as a reaction against its predecessor, digimodernism brought to light Lyotard’s ambivalent legacy of the grand narratives and sought to demonstrate their actuality, despite the few muffled screams of irony and ambiguity, found at the dying heart of postmodernity. Such a dwelling is characteristic of Stephanie Sarley’s newly-textual, Web 2.0 - based feminist and relatively fruitaritarian artwork, which is actively challenging the male coercive, oppressive and convex view of women’s sexuality, by means of earnesness, selfhood, the apparently real, as well as through ambiguity and irony. By looking at Sarley’s art, I will attempt, not only to conceptualize and illustrate industrial pornography as a metanarrative, with regard to the type of food porn the artist creates, but also to elaborate on the uninterrupted connection between digimodern and postmodern features reflected in her prototypic art. The endless narrative form sheds light on a process of alienation from the basic goal of the prescribed mechanisms found at the core of the pornographic industry and labels the grand narrative of Christianity as opressive, against freedom and democracy, while the grand narrative of capitalism is reduced to non-existence through Sarley’s altogether purely emancipatory, digimodern and postmodern artwork.

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Short-bio

Patricia Şoitu teaches English and is enrolled in the Doctoral School of Humanities of the Faculty of Letters, Ovidius University of Constanţa. She has participated in conferences, both nationally and internationally and wishes to further her academic research. Her interests include Gender Studies, Theories of Feminism and Postfeminism, Theories of Postmodernism and Digimodernism, as well as Ecocriticism.

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BRUNO SURACE

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Il radicale postmoderno contemporaneo 

Il trionfo del pastiche e l’estetica dell’autocitazione fra cinema, Netflix e YouTube

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Se c’è una caratteristica che accomuna tutte le definizioni di postmoderno è quella del pastiche, inteso come programma estetico che palesa il portato di intertestualità, inizialmente intesa come “l’interazione testuale che ha luogo all’interno di un solo testo” (Kristeva 1980), di ogni fenomeno comunicativo, incorporandovi citazioni palesi, giochi di rimandi, mescolanza di generi. Non che, naturalmente, prima i meccanismi di allusione non esistessero (basti pensare al concetto musicale, ma non solo, di contrafactum, cfr. Vincenti 2011), ma nel postmoderno contemporaneo – era della “condizione postmediale” (Eugeni 2015) in cui “la presenza dei media è pervasiva ma inavvertita” (ib.) – operano un ribaltamento: non più le citazioni impreziosiscono le storie, ma queste ultime sembrano invece costituire niente più che i terreni di articolazione di una farragine di citazioni, la cui rilevazione esaurisce quasi del tutto l’esperienza del testo. È evidente nei più significativi fenomeni mediali contemporanei. La fruizione di Stranger Things si risolve spesso in una caccia pedissequa al riferimento anni ‘80, e così funzionano sempre di più altri prodotti di punta di Netflix, che nella bolla postmoderna finisce programmaticamente per citare anzitutto se stessa. Nello speciale Black Mirror: Bandersnatch uno degli snodi narrativi, a mo’ di easter egg proprio come in un videogame, porta direttamente negli studi di produzione del film; nella serie tv American Vandals, stagione 2, i protagonisti della prima stagione sono assoldati da Netflix per riproporre il loro mockumentary. Nel cartone animato Big Mouth compaiono ironiche citazioni della piattaforma, spesso rese attraverso interpellazioni; e così via. Similmente, nel parallelo multiverso di YouTube, che con Netflix definisce il principale passatempo della contemporaneità, nulla è più in voga che parlare di YouTube stesso, commentarne le politiche, basare i propri contenuti e format su quelli altrui, articolare dialettiche oppositive fra la collaborazione e il “dissing” con altri beniamini della piattaforma, fino a Rovazzi, che con un video musicale all’anno costruisce complessi giochi fondati sul cameo, ponendo in secondo piano la pur presente coerenza narrativa e musicale. Anche al cinema ciò è evidente: se il film nel o sul film è prassi sin dal cinema delle origini (il noto The Big Swallow, James Williamson 1901, è la fondazione di un loop ricorsivo in cui il personaggio inquadrato individua la cinepresa nell’antecampo, inghiottendola con tutto il cineoperatore, per generare automaticamente un nuovo antecampo), è nel contemporaneo che il radicale riferirsi a se stesso si fa seriale e monopolizza gusti e tendenze, dall’Oscar del 2014 a Birdman (Alejandro González Iñarritu) all’horror metalinguistico come genere dominante. Si pensi, fra i tanti, alla quadrilogia di Scream (1996, 1997, 2000, 2011, Wes Craven), in cui le regole del genere vengono da un lato palesate, discusse, derise, e dall’altro reiterate, o a Cabin in the Woods (Quella casa nel bosco, 2011, Drew Goddard), che sin dalla locandina ci mostra la baita archetipica di un certo filone horror visivamente e metacomunicativamente decostruita come si trattasse di un puzzle. Fino al florilegio di remake, prequel, sequel, spin-off, e al costante lavorio parodico, fondato sul “già visto” e su esercizi costanti di traduzione e risemantizzazione, dentro (dalla saga di Scary Movie in avanti) e fuori (YouTube, internet meme, pagine comiche e satiriche sui social media) dal cinema. Obiettivo di questo paper è dunque vagliare, attraverso una prospettiva d’indagine mediale e sociosemiotica, la condizione postmoderna contemporanea che dalla citazione si radicalizza all’autocitazione programmatica, ridefinendosi da un’estetica fondata sul rimando all’altro a una sulla coazione a ripetere se stessi, in una sorta di diffusa e dominante isotopia della mise en abyme.

 

Short-bio

Bruno Surace è Ph.D in Semiotica e Media e assegnista di ricerca presso l’Università di Torino, dove insegna Semiotica e Cinema e Comunicazione audiovisiva. Ha pubblicato una trentina di articoli in numerose riviste peer reviewed, curato libri e partecipato come relatore a convegni in Europa, Cina e USA. È autore della monografia Il destino impresso. Per una teoria della destinalità nel cinema (Kaplan, 2019).

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CODRIN TÄ‚UT

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Différend, antagonisme, mésentente. 

Notes sur la revendication postmodern du politique

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Selon certaines interprétations standard et canoniques, le versant politique du postmodernisme peut être déchiffré à partir de quelques jalons facilement à repérer. Il s'agit, en premier lieu, d'une fragmentation et/ou d'une pluralisation de l’espace social, phénomène talonné par le déclin de l’autorité (autorité coutumière, autorité de la loi ou même autorité de la science), par la dissolution de structures rigides du sujet et de ses surfaces d'inscription (sexe, race, classe, nation) et par la disparition du caractère rédemptif ou utopique des projets politiques.

Sans doute, ces bornes ont un caractère incontestable et mettent en place un certain sens de l'orientation. Mais, au-delà, il reste un territoire conceptuel marqué par une ambiguïté constitutive. Le sens du préfixe post possède des certes resonances téléologiques (aboutissement d'un certain projet de la modernité), mais aussi des tonalités dialectiques (dépassement du moderne) ou bien catastrophiques (glissement de la modernité dans le totalitarisme). D'autre part, il reste dans le même régime d'ambiguïté s'il s’agit d’une nouvelle configuration historique ou bien, plutôt, d'une répétition, au niveau de la suprastructure idéologique, du mouvement d'expansion du Capital. 

Sans nier l'existence de certaines difficultés théoriques, notre intervention vise à reconstruire, d’une manière critique, l'émergence de la notion du politique et de ses pratiques associées dans la configuration historique du postmodernisme. Par le politique, nous entendons un dispositif théorique et pratique non institutionnalisé, dont la fonction principale est de maintenir ouverte la contingence et la possibilité d'émancipation, après la fin des métarécits. Notre hypothèse centrale est que cette émergence n'est pas de l'ordre d'une création ex nihilo, il ne s'agit pas d'un element spécifique ou distinctif du postmoderne, mais plutôt le résultat d'un déplacement, ou d'une altération de la position antérieure occupé par le politique.

Notre approche se déroulera en plusieurs étapes. Dans un premier temps, on va essayer de retracer la distinction la politique/le politique. Dans un deuxième moment, nous allons construire un échantillon d’analysé comprenant quatre auteurs : Jean-François Lyotard, Ernesto Laclau avec Chantal Mouffe et Jacques Rancière. Cet échantillon sera justifié par sa complétude (les quatre noms évoqués ci-dessous,  donne une image complète du champ de problèmes que nous étudions) et par la commensurabilité (il existe une possible intertraductibilité entre ces quatre auteurs). Pour des raisons méthodologiques, nous allons nous concentrer sur les trois figures conceptuelles invoquées dans le titre. Ça signifie que notre objectif n'est pas tant d'explorer le versant conflictuel du politique, mais la rupture du régime de la représentation.

Après ces deux étapes, nous essayerons de voir dans quelle mesure on peut identifier une dynamique de correction successive entre ces théories, et par cela d’un raffinement progressif de la notion du politique et de son champ conceptuel associé. 

Enfin, la dernière partie de notre intervention se propose une double tâche: d’une part d'analyser  à quel point cette notion du politique peut conduire à une autre compréhension de la condition postmoderne, par exemple: est-ce qu’il y a des décalages conceptuels entre la perspective politique du postmodernisme et les autres lignes de développement par exemple l’esthétique ou l’épistémologie constructiviste. Également nous essaierons de discerner les limites du concept postmoderne du politique, les pertes de son rendement explicatif et pratique par rapport à la configuration historique actuelle.

 

Short-bio

Codrin TÄ‚UT est attaché au département Recherche, Méthodologie de la  Bibliothèque Centrale Universitaire Carol I, Bucarest, Roumanie. Il est docteur en Sciences Politiques avec une une thèse sur l'évolution du concept du politique dans l'époque contemporaine. Ses domaines de recherche sont la philosophie et la theorie politique contemporaine et la Théorie Critique et  Il a publié avec Matei Demetrescu La gouvernementalité. Formes et techniques du pouvoir en Occident éd Adenium, 2014 (en roumain).

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AMIRPASHA TAVAKKOLI

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Postmodernism and the question of fiction rationality

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Jean-François Lyotard’s conception of post modernism based upon a serious critic of modern ideals, such as emancipation and freedom. In his works, he tried to go beyond the limits of the Enlightenments by putting accent upon the influence of post modernity on western philosophy. He defended mostly the particularity of subjects and the multiplicity of language games, against the universality of discourses and meta-narratives, such as Marxism or Freudism. Modern ideals were criticized and the universality of modernity as on oppressive, predefined ideology has been replaced by the multiplicity of rationalities and local méta-narratives in "Economie libidinal" or "Dérives à partir de Marx et Freud". In The Post modern condition published in 1979, Lyotard considered Marxism as an undesirable form of social struggle, which leads to totalitarianism and crime against humanity. Lyotard believed that the emergence of new forms of domination in Soviet Union and the failure of the freudo-marxism promise of freedom and emancipation in western countries put the whole modern project in a vulnerable and illegitimate situation. For Lyotard, the time has been arrived to finish with modernity in post industrial societies and to think about new forms of rationality and micro-narratives, based upon new technologies such as artificial intelligence and machine translation. According to defenders of modern project in 20th century, Loytard reduced and simplified the whole modern project to the triumph of instrumental rationality (as it was defined by Max Weber and George Simmel) and neglected widely the "logic of particular’" in what Rancière called in Les temps moderns : art, temps, politique "fictional rationality". To say it differently, fictional rationality, by putting accent on self-consciousness and autonomy of modern subject is totally in opposition to meta-narratives and teleological conceptions of history. Rancière believed that the "logic of particular" played a major role in modern aesthetic theory and he referred mainly to Madame Bovary or Mrs Dalloway, in order to redefine the whole modern project and its openness to diversity and different micro-narratives. In this article, I’m going to analyze the reasons for which, postmodernism failed to deconstruct the philosophy of enlightenment and to go beyond the limits of modernity, by using Rancière’s idea of "fictional rationality". I would like to put in discussion Lyotard and Rancière, in order to criticize the hypotheses of the ‘End of modernity’ as it was proposed by Lyotard, forty years after the publication of La condition post modern. .

 

Short-bio

Amirpasha Tavakkoli est doctorant à l’école des hautes études en sciences sociales. Dans ses travaux de recherche, il essaye de mettre en dialogue la philosophie politique avec lé féminisme et la psychanalyse.

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DARIO TOMMASELLO

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Una terribile condizione postmoderna. 

Le pratiche fondamentaliste di auto-rappresentazione nei Social Media

 

E se il sedicente scontro di civiltà si risolvesse nell’appiattimento su un orizzonte condiviso da tutti gli integralismi che non fa che replicare un funesto progetto estetico?

Il cortocircuito rappresentato dalla dimensione performativa dei selfie (scattati poco prima di un attentato suicida e taggati ad ampio spettro sui Social), coinvolge, come progetto di controversa autorappresentazione identitaria, sia il fondamentalismo islamico sia il fondamentalismo islamofobo. In entrambi i casi, questa “performance terrorista”, per usare la provocatoria formula di Richard Schechner, con la sua ansia citazionista, ci ricorda che siamo ancora pienamente dentro una terribile Condition postmoderne, scandita da una manipolazione decostruttiva dei riferimenti culturali consolidati, a Occidente come a Oriente (utilizziamo questa distinzione per comodità, consapevoli del suo carattere capzioso). Questa manipolazione ha prodotto una nevrosi contemporanea che ha a che fare con uno stadio di secolarizzazione fortemente avanzato. Nell’universo variegato e tutt’altro che monolitico del mondo musulmano, le nuove generazioni, alla luce della stagione già profondamente secolarizzata vissuta dai loro genitori, non hanno più memoria di cosa sia la loro tradizione religiosa, semmai ne hanno una malcelata nostalgia che nulla aggiunge alla loro ignoranza. Nello stesso tempo, esse dimostrano un appetito incontenibile proprio per quella liberalità occidentale dell’organizzazione sociale e dei costumi che vedono come una promessa continuamente frustrata. Una promessa destinata quindi ad attirare, nei casi più patologici, un’incontenibile furia omicida e suicida. Il postmoderno ricapitola, a queste latitudini, una malintesa concezione della modernità che ha smesso da tempo di fare i conti con il proprio retroterra intellettuale e spirituale. Da questo punto di vista, è come se l’escalation di violenza spettacolare a cui stiamo assistendo, costituisse il risvolto ineludibile di una frustrazione che nutre un terreno di coltura mediale destinato nel loop del proprio repertorio ad auto-alimentarsi di una vena profondamente nostalgica. La messe evanescente delle immagini è il fantasma di una presenza che si è estinta e sopravvive per innescare desideri monchi, guasti, feticistici. La nostalgia nelle immagini diventa una coazione a ripetere verso il grado zero di ogni possibile simbolismo.

C’è chi, ignorando la portata di questo processo involutivo, ha parlato di un Postmodern Islam, inteso come orizzonte di dissenso, entro il quale ha trovato linfa vitale anche la Primavera araba e, nel disordine che ne è seguito, le sue scaturigini più terrifiche. Tuttavia, almeno sino ad una certa altezza cronologica del dibattito, questo postmodernismo islamico che ha una diretta corrispondenza con il fondamentalismo, è stato equivocato dall’ansia ideologica di un valido surrogato del terzomondismo, al punto da essere considerato una rivolta promettente contro la modernità invece di riconoscervi, nel segno di una coerente postmodernità, una sua augusta parodia e, quindi, il più reverenziale degli omaggi. Ad analisi di questo tipo è mancato il conforto lungimirante di un’adeguata conoscenza del potere esercitato dai social media nel modificare e, persino, nello sclerotizzare certe tendenze in atto.

I case studies che intendiamo esaminare dimostrano, appunto, come l’estetica di un Occidente globale abbia finito per prevalere. Fondamentalisti islamici e suprematisti, di là dalle fatue e farneticanti dichiarazioni d’intenti, concepiscono le loro azioni all’insegna degli action movies di Hollywood e di videogames come Grand Theft Auto e Call of Duty.

 

Short-bio

Insegna presso l'Università di Messina, dove coordina il DAMS e ha fondato il Centro Internazionale di Studi sulla Performatività delle Artie degli Immaginari Sociali. ha tradotto e curato il manuale di Richard Schechner, Introduzione ai Performance Studies (CUE, 2018). dirige per Editoria & Spettacolo la collana FARETESTO, dedicata a un repertorio di testi della drammaturgia italiana contemporanea. dirige dal 2011 "Mantichora. itallian Journal of Performance Studies". E' stato visiting professor alla Sourbonne Nouvelle - Paris III e ha tenuto conferenze in molti Atenei e Istituzioni italiane e internazionali. 

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